La definizione di bullismo a cui si fa maggiormente riferimento oggi in ambito accademico appartiene invece a Dan Olweus e postula chiaramente tre specifiche condizioni: l’a­simmetria, l’intenzionalità e la sistematicità: Un ragazzo è oggetto di azioni di bullismo quando viene esposto, ripetutamente e per lungo tempo, alle azioni ostili messe in atto da uno o più compagni, quando queste azioni sono compiute in una situazione di squilibrio di forze, ossia in una relazione asimmetrica, e il ragazzo (l’aggressore, detto “bullo”, oppure un gruppo di ragazzi) fa o dice qualcosa al fine di dominare, umiliare, o comunque esercitare una qualche forma di potere su un’altra persona (la vittima).

Il bullo possiede scarse capacità empatiche, oltre che un innaturale bisogno di dominare e sottomettere. Come emerge dalle ricerche di Robert Rosenthal, i bambini più bravi a leggere i segnali empatici non verbali negli altri sono fra i più amati dai loro compagni ed emotivamente stabili. Il bullo, al contrario, fatica a porsi dal punto di vista altrui e non rispetta i bisogni di chi lo circonda, genitori compresi, e tale egocentrismo lo porta a scavarsi attorno un vero e proprio vuoto relazionale: anziché provare a mettersi nei panni di chi soffre, preferisce di gran lunga restarsene nei propri. Il senso morale del bullo, come è ovvio, lascia piuttosto a desiderare o, se preferite, la sua coscienza è pulita proprio perché non l’ha mai usata. Attraverso un processo, definito di disimpegno morale, il bullo riesce a dissociare l’azione dalla propria auto-valutazione, rendendo così possibili e giustificati atteggiamenti che normalmente una persona non considera accettabili. Molti bulli sono abili nel sottrarsi alle responsabilità e, soprattutto in situazioni ambigue, tendono a minimizzare la gravità delle proprie azioni o a mettere in evidenza il ruolo giocato da altri: per giustificarsi spesso descrivono il comportamento della vittima come aggressivo o provocatore.

Il bullo che ricorre apertamente all’aggressione fisica spesso proviene da un ambiente dove trova applicazione il modello di coercizione di Patterson: l’agire violento è appreso in famiglia per imitazione e in seguito applicato anche nell’ambiente esterno. Agisce un meccanismo di difesa chiamato identificazione con l’aggressore. Chi subisce una violenza, un’aggressione, un’offesa, vive sentimenti di paura, impotenza e vergogna, che lo portano in alcuni casi a compiere gesti autolesionistici, o in altri a cercare di superarli “identificandosi” con l’aggressore, diventando a sua volta bullo e facendo vivere i suoi stessi sentimenti a un’altra vittima. Così facendo, la mente della persona cerca di liberarsi di un vissuto che è fondamentalmente di “impotenza” facendolo vivere a un’altra, anche se questo di certo non la libera dai propri fantasmi. Anche vedere genitori o fratelli agire con prepotenza predispone il bambino al bullismo. Un bambino che sente regolarmente i suoi genitori discutere su come “sono riusciti a far fare qualcosa a qualcuno”, o su come hanno deliberatamente imbrogliato o circuito un collega di lavoro per raggiungere i loro scopi inevitabilmente può sentirsi incoraggiato ad adottare tattiche analoghe con i compagni. Allo stesso modo, il bambino può rafforzare l’inclinazione alla prevaricazione, se la famiglia lo sostiene, o perlomeno non lo disapprova con forza, quando si mostra poco rispettoso nei confronti degli altri.

 

– Come individuare situazioni di bullismo

Non è facile riconoscere quando il proprio figlio è vittima di bullismo o cyberbullismo. I ragazzi infatti tendono spesso a negare questa situazione per una serie di motivi, tra cui la paura di ritorsioni o quella di apparire deboli. Per questo sono necessari ascolto ed osservazione costante da parte di genitori ed insegnanti. Il genitore in particolare può porre attenzione ad alcuni segnali che evidenziano uno stato di disagio emotivo nel figlio:

– trova scuse per non andare a scuola;

– mostra segni di ansia, umore depresso o anche sintomi fisici (mal di pancia o testa) soprattutto al mattino;

– presenta una regressione a fenomeni tipici di età precedenti (es. vuole dormire con i genitori);

– lamenta problemi nel sonno (difficoltà di addormentamento, risvegli continui durante la notte, incubi) e nell’appetito;

– compie strani percorsi per arrivare a scuola;

– torna a casa spesso con oggetti rovinati o ferite;

– dice di avere amici, ma non partecipa alle situazioni sociali come compleanni, uscite, etc.;

– manifesta improvvisi scatti di rabbia verso i familiari;

– non riesce a concentrarsi sui compiti e va male a scuola;

– evita di rispondere alle domande e diventa aggressivo;

– a scuola non interviene mai nelle discussioni in classe e partecipa mal volentieri alle attività sportive;

– apatia e perdita di interesse per attività del tempo libero;

L’isolamento in particolare si presenta ancora più intenso nei casi di cyberbullismo. Da questo punto di vista ricordiamo anche che una famiglia troppo coesa, troppo protettiva, che non consente al figlio di partecipare alle attività con i coetanei può aprire la strada ad un futuro isolamento nei casi di bullismo e cyberbullismo, oltre a privare il bambino di una rete di sostegno e protezione a scuola.

Tutta la società può e deve dare il suo contributo perché il bullismo rappresenta un problema sociale che riguarda non solo le parti coinvolte ma tutti coloro che a vario titolo, ricoprono il ruolo di educatori. Non bisogna abbassare la soglia di attenzione nei confronti dei bulli, che altrimenti sono portati a pensare di poter agire indisturbati. Fondamentale è la prevenzione che da una parte aiuta ad identificare immediatamente quei piccoli segnali di bullismo che potrebbero evolversi in un vero e proprio comportamento delinquenziale del bullo, e dall’altra riduce il rischio che la vittima possa sviluppare problemi legati alla sfera affettiva e relazionale. Occorre operare con una pluralità di procedure in relazione alla specificità dei singoli casi e dei contesti, portando sempre avanti un intervento educativo sinergico e coerente, per la cui realizzazione è fondamentale un intenso dialogo educativo. Se un genitore ha il sospetto che il proprio figlio sia vittima oppure autore di atti offensivi è necessario che ne parli e si confronti con gli insegnanti. Se, invece, è un insegnante a riconoscere l’esistenza del bullismo, dovrebbe convocare i genitori, sia del bullo che della vittima, e condividere insieme a loro una strategia di intervento coerente per porre fine al fenomeno.